News
Cappella degli Scrovegni..un tesoro d’arte!

La cappella degli Scrovegni è un luogo di culto cattolico che si trova nel centro storico di Padova e ospita un celeberrimo ciclo di affreschi di Giotto dei primi anni del XIV secolo, considerato uno dei capolavori dell’arte occidentale. La navata è lunga 20,88 m, larga 8,41 m, alta 12,65 m; la zona absidale è formata da una prima parte a pianta quadrata, profonda 4,49 m e larga 4,31 m, e da una successiva, a forma poligonale a cinque lati, profonda 2,57 m e coperta da cinque unghiature nervate[1]. Dal 2006 la Cappella degli Scrovegni è candidata a diventare il secondo sito di Padova del Patrimonio dell’UNESCO (il primo è l’orto botanico del XVI secolo)[2].
Storia
Costruzione e decorazione della cappella
Intitolata a Maria Vergine Annunziata, la cappella fu fatta costruire da Enrico Scrovegni, ricchissimo usuraio padovano, che agli inizi del Trecento aveva acquistato da un nobile decaduto, Manfredo Dalesmanini, l’area dell’antica arena romana di Padova. Qui provvide ad edificare un sontuoso palazzo, di cui la cappella era oratorio privato e futuro mausoleo familiare. Chiamò ad affrescare la cappella il fiorentino Giotto, il quale, dopo aver lavorato con i francescani di Assisi e di Rimini, era a Padova chiamato dai frati minori conventuali ad affrescare la sala del Capitolo, la cappella delle benedizioni e forse altri spazi nella Basilica di Sant’Antonio[3]. Infondata la notizia secondo cui Enrico Scrovegni fece costruire questo edificio sacro in espiazione del peccato di usura commesso dal padre Rinaldo (o Reginaldo), che Dante Alighieri, qualche anno dopo la conclusione del ciclo giottesco, pone all’Inferno tra gli usurai (XVII, 64-66).
Menzioni antiche trecentesche (Riccobaldo Ferrarese, Francesco da Barberino, 1312-1313) certificano la presenza di Giotto al cantiere. La datazione degli affreschi è deducibile con buona approssimazione da una serie di notizie: l’acquisto del terreno avvenne nel febbraio dell’anno 1300, il vescovo di Padova Ottobono dei Razzi autorizzò la costruzione prima del 1302 (data del suo trasferimento al Patriarcato di Aquileia); la prima consacrazione si ebbe nella ricorrenza della Festa dell’Annunciazione, il 25 marzo 1303; il primo marzo 1304 papa Benedetto XI concesse l’indulgenza a chi avesse visitato la cappella e un anno dopo, sempre nella ricorrenza del 25 marzo (1305), la cappella veniva consacrata. Nell’arco di tempo tra il 25 marzo 1303 e il 25 marzo 1305 si colloca dunque il lavoro di Giotto. Per inciso, nel Giudizio Universale della Cappella, un raggio di luce ogni 25 marzo passa tra la mano di Enrico e quella della Madonna.
L’interno della cappella con la controfacciata e parte del ciclo pittorico delle pareti, riproduzione
Giotto dipinse l’intera superficie interna dell’oratorio con un progetto iconografico e decorativo unitario, ispirato da un teologo agostiniano di raffinata competenza, recentemente identificato da Giuliano Pisani in Alberto da Padova[4]. Tra le fonti utilizzate vi sono molti testi agostiniani, i Vangeli apocrifi dello pseudo-Matteo e di Nicodemo, la Legenda Aurea di Jacopo da Varazze e, per qualche dettaglio iconografico, le Meditazioni sulla vita di Gesù dello pseudo-Bonaventura, oltre a testi della tradizione medievale cristiana, tra cui Il Fisiologo.
Quando lavora alla decorazione della Cappella il grande maestro dispone di una squadra di una quarantina di collaboratori e si sono calcolate 625 “giornate” di lavoro, dove per giornata non si intende l’arco delle 24 ore, ma la porzione di affresco che si riesce a dipingere prima che l’intonaco si secchi (cioè non sia più “fresco”).
Rifacimento dell’abside
Nel gennaio del 1305, quando i lavori alla cappella stavano per concludersi, gli Eremitani, che vivevano in un convento li vicino, protestarono con veemenza perché la costruzione della cappella, andando oltre gli accordi presi, si stava trasformando da oratorio in una vera e propria chiesa con tanto di campanile, creando dunque concorrenza alle attività degli Eremitani. Si ignora come la vicenda si sia conclusa, ma è probabile che in seguito a queste rimostranze la Cappella degli Scrovegni abbia subito l’abbattimento della monumentale parte absidale con ampio transetto (documentata nel “modellino” dipinto da Giotto nell’affresco in controfacciata), dove lo Scrovegni aveva progettato di inserire il proprio mausoleo sepolcrale: la datazione più tarda degli affreschi dell’abside (post 1320) confermerebbe questa ipotesi[5].
La zona absidale, che tradizionalmente è la più significativa di un edificio sacro e che ospita anche la tomba di Enrico e della sua seconda moglie, Iacopina d’Este, presenta un restringimento inconsueto e trasmette un senso di incompletezza, quasi di disordine. Anche nel riquadro inferiore destro dell’arco trionfale, sopra il piccolo altare dedicato a Caterina d’Alessandria, la perfetta simmetria giottesca è alterata da una decorazione a fresco – con due tondi con busti di sante e una lunetta che rappresenta Cristo in gloria e due episodi della passione, la preghiera nell’orto del Getsemani e la flagellazione -, che crea un effetto di squilibrio. La mano è la stessa che affresca gran parte della zona absidale, un pittore ignoto, il Maestro del coro Scrovegni, che opererebbe nel terzo decennio del Trecento, una ventina d’anni dopo la conclusione del lavoro di Giotto. Il punto focale del suo intervento sono sei grandi scene sulle pareti laterali del presbiterio, dedicate all’ultima fase della vita terrena della Madonna, coerentemente con il programma affrescato da Giotto.
Periodo moderno
La cappella era originariamente collegata attraverso un ingresso laterale al palazzo Scrovegni, abbattuto nel 1827 per ricavarne materiali preziosi e far spazio a due condomini. Il Palazzo era stato fatto erigere seguendo il tracciato ellittico dei resti dell’antica arena romana. La cappella fu ufficialmente acquisita dalla municipalità di Padova con atto notarile nel 1881, un anno dopo il mandato del Consiglio Comunale nella seduta del 10 maggio 1880. Subito dopo l’acquisto i condomini furono abbattuti e la cappella fu oggetto di restauri, non sempre felici. Nel giugno del 2001, dopo vent’anni di indagini e studi preliminari, l’Istituto Centrale per il Restauro del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Comune di Padova avviarono il restauro degli affreschi di Giotto, sotto la guida di Giuseppe Basile. Un anno prima erano stati completati gli interventi sulle superfici esterne dell’edificio e si era inaugurato l’adiacente Corpo Tecnologico Attrezzato (CTA), dove i visitatori, in gruppi di massimo venticinque per volta, sono chiamati a sostare una quindicina di minuti per sottoporsi a un processo di deumidificazione e depurazione dalle polveri. Nel marzo del 2002 la Cappella fu riconsegnata al mondo in tutto il suo ritrovato splendore. Restano aperti alcuni problemi, come l’allagamento della cripta sottostante la navata per la presenza di una falda acquifera, o i cordoli in cemento introdotti agli inizi degli anni sessanta del XX secolo in sostituzione degli originali lignei (con evidenti ripercussioni sulla diversa elasticità dell’edificio).
Descrizione
Le storie di Gioacchino ed Anna, Maria e Cristo
L’aula si presenta interamente affrescata su tutte e quattro le pareti. Giotto stese gli affreschi su tutta la superficie, organizzati in quattro fasce dove sono composti i pannelli con le storie vere e proprie dei personaggi principali divisi da cornici geometriche. La forma asimmetrica della cappella, con sei finestre solo su un lato, determinò il modulo della decorazione: una volta scelto di inserire due riquadri negli spazi tra le finestre, si calcolò poi l’ampiezza delle fasce ornamentali per inserirne altrettanti di eguale misura sull’altra parete[6]. Il ciclo pittorico, incentrato sul tema della salvezza, ha inizio dalla lunetta in alto sull’Arco Trionfale, quando Dio decide la riconciliazione con l’umanità affidando all’arcangelo Gabriele il compito di cancellare la colpa di Adamo con il sacrificio di suo figlio fatto uomo. Prosegue con le Storie di Gioacchino ed Anna (primo registro, parete sud), le Storie di Maria (primo registro, parete nord), ripassa sull’Arco Trionfale con le scene dell’Annunciazione e della Visitazione, cui seguono le Storie di Cristo (secondo registro, pareti sud e nord), che continuano, dopo un passaggio sull’Arco Trionfale (Tradimento di Giuda), sul terzo registro, pareti sud e nord. L’ultimo riquadro della Storia Sacra è la Pentecoste. Subito sotto si apre il quarto registro con i monocromi dei vizi (parete nord) e i monocromi delle virtù(parete sud). La parete ovest (o controfacciata) reca il grandioso Giudizio Universale. Questo il dettaglio delle varie scene:
Arco trionfale (lunetta)
Primo registro, parete sud
- Cacciata di Gioacchino
- Ritiro di Gioacchino tra i pastori
- Annuncio a sant’Anna
- Sacrificio di Gioacchino
- Sogno di Gioacchino
- Incontro di Anna e Gioacchino alla Porta d’Oro
Primo registro, parete nord
- Natività di Maria
- Presentazione di Maria al Tempio
- Consegna delle verghe
- Preghiera per la fioritura delle verghe
- Sposalizio della Vergine
- Corteo nuziale di Maria
Arco trionfale
Secondo registro, parete sud
- Natività di Gesù e annuncio ai pastori
- Adorazione dei Magi
- Presentazione di Gesù al Tempio
- Fuga in Egitto
- Strage degli innocenti
Secondo registro, parete nord
- Cristo tra i dottori
- Battesimo di Cristo
- Nozze di Cana
- Resurrezione di Lazzaro
- Ingresso a Gerusalemme
- Cacciata dei mercanti dal Tempio
Arco trionfale
Terzo registro, parete sud
Terzo registro, parete nord
- Salita al Calvario
- Crocifissione
- Compianto sul Cristo morto
- Resurrezione e Noli me tangere
- Ascensione
- Pentecoste
Controfacciata
La volta rappresenta l’ottavo giorno, il tempo dell’eterno, il tempo di Dio, con otto pianeti (i tondi che racchiudono i sette grandi profeti dell’Antico Testamento e Giovanni Battista) e due grandi soli (Dio e la Madonna con il bambino), mentre il blu del cielo è trapunto di stelle a otto punte (il numero otto, coricato, simboleggia l’infinito).
Le allegorie a monocromo dei Vizi e delle Virtù
Il quarto registro delle due pareti laterali, quello più in basso, riporta il percorso con quattordici Allegorie a monocromo che simboleggiano i Vizi sulla sinistra (Stultitia, Inconstantia, Ira, Iniusticia, Infidelitas, Invidia, Desperatio) e le Virtù sulla destra (quattro cardinali, Prudencia, Fortitudo, Temperantia, Iusticia, e tre teologali, Fides, Karitas, Spes), alternate a specchiature in finto marmo. Il nome del vizio o della virtù è scritto in alto in latino e indica chiaramente che cosa rappresentino queste immagini. Rappresentano il percorso del settimo giorno (quello che sta tra la nascita della Chiesa e il Giudizio Universale).
Vizi e virtù corrispondenti si fronteggiano a coppia, in modo da simboleggiare il percorso verso la beatitudine, da effettuarsi superando con la cura delle virtù gli ostacoli posti dai vizi corrispondenti, seguendo uno schema filosofico-teologico di ascendenza agostiniana. Questo schema evidenzia compiutamente il rigoroso disegno filosofico-teologico presente nel programma della Cappella degli Scrovegni ed è la chiave per chiarire altri punti della decorazione che erano ritenuti “oscuri” o frutto di “approssimazione”. Tale innovativa lettura è stata operata da Giuliano Pisani. I vizi non sono i tradizionali vizi capitali (superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola, lussuria). Le sette virtù contrapposte non rispecchiano l’ordine tradizionale.
Si tratta di due percorsi terapeutici e di salvezza: il primo porta alla guarigione dai vizi tramite le virtù cardinali opposte, conducendo l’umanità alla Giustizia, che realizza le condizioni della pace e dunque del Paradiso Terrestre e della felicità terrena. In particolare, la Stultitia rappresenta l’incapacità di distinguere il bene dal male (siamo nella sfera della conoscenza) e può essere curata dalla medicina della Prudentia, l’intelligenza etica, che consente di discernere le cose da desiderare e quelle da evitare. La Fortitudo, fortezza o saldezza d’animo, trionfa grazie alla forza di volontà sulle lubriche oscillazioni dell’Inconstantia, la “mancanza di una sede stabile”, un insieme di leggerezza, volubilità e incoerenza (siamo nella sfera della volontà). La temperantia, l’equilibrio interiore che assicura il dominio stabile della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà, è la terapia atta a vincere le passioni, simboleggiate dall’ira (siamo fin qui in piena sintonia con la filosofia greca antica, ripresa dai latini e da sant’Agostino). Prudenza, fortezza, temperanza sono virtù della sfera etica individuale, e hanno come oggetto di riferimento la cura di sé. La virtù etica si esplica nella sua messa in pratica, con atti e comportamenti che riguardano sia la sfera personale, sia quella sociale, perché coinvolgono i rapporti con il prossimo e quelli degli uomini tra loro: da qui i concetti etici di Giustizia e Ingiustizia, la coppia centrale del ciclo giottesco: Iniustitia – Iustitia. La perfetta “centralità” della Giustizia è sottolineata anche visivamente da Giotto: sopra le virtù (e dall’altro lato sopra i vizi) corre infatti, lungo l’intera parete, una treccia architettonica, in cui un solo elemento, quello posto sulla verticale esatta della testa della Giustizia (e dall’altro lato dell’Ingiustizia) appare perfettamente in asse, mentre tutti gli altri piegano o verso sinistra o verso destra, in direzione rispettivamente dell’abside e della controfacciata. Chi è giunto alla giustizia ha di fatto praticato una “terapia umana” dell’anima, che lo ha portato alla felicità terrena, usando la medicina animi delle virtù cardinali, che sono virtù morali e intellettuali, con cui ha curato i vizi contrari.
Per aspirare al Paradiso celeste occorrono invece gli insegnamenti divini, la rivelazione della verità che supera e trascende la ragione umana, la pratica delle virtù teologali. La “terapia divina” muove dal ripudio delle false credenze (Infidelitas) attraverso la fiducia (Fides) nella parola di Dio; supera con l’amore (Karitas) l’egoismo e l’avidità, che portano a guardare con occhi malevoli (Invidia) quel prossimo che è fatto a immagine e somiglianza di Dio; e alimenta infine la speranza, attesa attiva delle benedizioni future, che nasce dalla “fiducia” in Dio e nella sua parola e dall’amore ricambiato verso di Lui e verso l’umanità intera.
Le fonti di un simile straordinario disegno sono state individuate da Pisani in alcuni passi di diverse opere di Sant’Agostino. Tutto trova perfetta rispondenza: il tema della “terapia dei contrari”, l’ordine sequenziale delle virtù cardinali e delle virtù teologali, la centralità della giustizia. Giotto è evidentemente ispirato da un teologo di raffinata cultura e sensibilità, ritratto in ginocchio con il modellino della Cappella sulle spalle nella scena della controfacciata, in cui Enrico Scrovegni lo porge alla Madonna. Giotto lo indica dunque come l’ideatore della Cappella e per una serie convergente di indizi è stata proposta da G. Pisani la sua identificazione con il grande teologo agostiniano Alberto da Padova (1269 circa – 1328)[7].
La controfacciata con Il Giudizio Universale
Il Giudizio Universale occupa l’intera controfacciata. Al centro esatto c’è la mandorla iridata con Cristo Giudice. Ai due lati i dodici apostoli, seduti in trono, creano un piano che taglia la scena in orizzontale: nella parte superiore Giotto dipinge le schiere angeliche, in quella inferiore, a destra, l’orrore dell’Inferno e, a sinistra, due processioni di eletti disposte in parallelo su piani sovrapposti. La grande croce crea una linea verticale che prosegue idealmente fino alla vetrata centrale della grande finestra trilobata, simbolo della trinità divina. In alto due angeli stanno arrotolando il cielo, come fosse un tappeto, mostrando in tutto il loro splendore le porte della Gerusalemme celeste. Sulla croce una tabella porta questa iscrizione: «Hic est Iesus Nazarenus rex Iudeorum», «Costui è Gesù Cristo Nazareno, re dei Giudei», formula attestata solo in opere di Cimabue e che appare anche sulla croce lignea che Giotto realizzò per la Cappella e che si trova ora nel vicino museo civico agli Eremitani. In basso si aprono le tombe e fuoriescono i defunti, nudi, già in carne e ossa, destati dallo squillo delle lunghe trombe con cui quattro angeli, ai quattro punti estremi della mandorla di Cristo, annunciano l’ora solenne del giudizio.
«La croce separa in verticale lo spazio dei giusti da quello dei reprobi. Un fiume di fuoco, diviso in quattro bracci che squarciano d’una luce sinistra il regno di Satana, si stacca dalla mandorla iridata del Cristo e trascina all’ingiù, con la violenza di un vortice, i dannati, nudi, abbrancati e straziati da diavoli irsuti e orrendi. Un gigantesco, osceno Lucifero domina la scena: dalla bocca gli pende la parte posteriore di un uomo che sta ingurgitando, un altro gli fuoriesce dall’ano. È l’orco disgustoso delle favole! Il suo colore, come quello di tutti i diavoli, è il blu ciano, il blu nerastro della morte. Siede su due draghi che addentano e ingoiano altri corpi. Dalle orecchie gli fuoriescono serpenti che a loro volta afferrano e addentano i dannati, uno dei quali ha in testa una tiara papale. Tutt’intorno è un’orgia di orrori, con uomini e donne sottoposti a torture efferate. Le nudità maschili e femminili sono rappresentate con un realismo crudo e un’evidenziazione inusuale degli organi sessuali. Alcuni peccati sono chiaramente indicati, altri invece sono suggeriti dalle pene attraverso allusioni simboliche o per contrappasso: nello spazio tra le prime due lingue di fuoco ci sono dannati con al collo un sacchetto bianco, a sottolinearne l’avidità e l’attaccamento al denaro. In drammatica solitudine, poco sotto un gruppo di impiccati, Giuda Iscariota è appeso per il collo, le braccia abbandonate penzoloni, come se il suicidio della disperazione lo marchiasse per l’eternità: unico fra i dannati indossa una veste bianca che si apre sul davanti e scopre il ventre squarciato e gli intestini penzolanti.
Le immagini dipinte da Giotto sotto il trono di Cristo Giudice
Sotto il trono di Cristo Giudice la critica giottesca ha ritenuto di vedere i simboli degli evangelisti (o tetramorfo dell’Apocalisse di Giovanni: da sinistra a destra ci sarebbero l’aquila di Giovanni, il bue di Luca, l’uomo alato di Matteo, il leone alato di Marco). Ma Giotto non ha affatto dipinto questo. A questa errata lettura ha posto rimedio l’analisi di Giuliano Pisani: sotto il trono di Cristo Giudice sono rappresentati, da sinistra a destra, un’orsa con un luccio, un centauro, un’aquila e un leone alato, simboli che costituiscono un unicum e che trovano ampia spiegazione in diverse fonti[8].
La volta
La volta con le stelle a otto punte (simbolo dell’ottavo giorno, la dimensione dell’eternità[7]) su un cielo blu, simbolo della sapienza divina, ottenuto con azzurrite[9]. Essa è attraversata da tre fasce trasversali che creano due grandi riquadri, al centro dei quali due tondi rappresentano la Madonna col Bambino e il Cristo benedicente; otto Profeti (sette neviìm dell’Antico Testamento e Giovanni Battista) fanno loro corona, quattro per riquadro. Le tre fasce trasversali hanno motivi simili a quelli delle incorniciature della pareti, con inserti che raffigurano Santi e angeli in quella più vicina all’altare, e Santi (probabilmente i precursori di Cristo) nelle altre due.
Il portale è simbolo della Fede in Cristo mentre la luce solare dell’alba che irrompe dalla rotonda finestra dell’abside è la luce del Cristo risorto.[10] Sulla volta stellata è presente l’immagine del Cristo Pantocratore benedicente: Egli ha pollice, anulare e mignolo uniti (simbolo della Trinità), mentre indice e medio sono intrecciati (simbolo della doppia natura umana e divina di Cristo, nature in lui inscindibili contrariamente a quanto predicavano gli eretici seguaci del catarismo). Del resto l’idea di Dio trino ed uno si ripete attraverso varie simbologìe. Tre sono le absidi (una reale e due dipinte in prospettiva). Nell’arco trionfale, un ideale triangolo unisce il trono di Dio Padre con l’arcangelo Gabriele, a sinistra, e l’Annunciata, a destra. Sulla parete di fondo Cristo-Giudice è sceso dal trono-trifora (la finestra divisa in tre parti). Le triplette proseguono negli affreschi. Per citare qualche esempio: tre volte le porte di Gerusalemme, tre volte il tabernacolo del Tempio (Cacciata di Gioacchino, Presentazione di Maria, Presentazione di Gesù), tre volte il cenacolo, tre volte l’asino cristòforo (Natale, Fuga in Egitto, Palme)[11].
Presbiterio, Abside e Sacrestia
Presbiterio, abside e sacrestia sono spazi cui oggi il pubblico non può accedere. I primi due si possono cogliere dalla navata, a una distanza breve, ma che compromette comunque la lettura dei capolavori di Giovanni Pisano, una Madonna con Bambino tra due Angeli, posti sull’altare. Totalmente sottratta è invece la visione, in una nicchia del lato destro del coro, della Madonna del latte di Giusto de’ Menabuoi, delicato capolavoro del maestro fiorentino, che fu a Padova dal 1370 circa all’anno della morte, 1391, o dell’affresco di medesimo soggetto che si trova in un’identica nicchia sulla parete di fronte, nel lato sinistro, e che è da attribuire forse al medesimo artista. Letteralmente sequestrata nella sacrestia e dunque totalmente invisibile al pubblico è la statua orante di Enrico, che era sicuramente all’interno della Cappella, dove tutti la potevano vedere.
Le sei grandi scene sulle pareti laterali del presbiterio sono state affrescate dal cosiddetto Maestro del coro Scrovegni e sono dedicate all’ultima fase della vita terrena della Madonna, coerentemente con il programma affrescato da Giotto. La fonte è in alcuni vangeli apocrifi, che sono alla base anche del racconto di Iacopo da Varazze nella Legenda Aurea. Il percorso di lettura prende avvio in alto, sulla parete di sinistra, e scende per poi risalire lungo la parete opposta. Rappresentano le seguenti sei scene:
- Annuncio della morte a Maria
- Saluto degli apostoli al capezzale di Maria
- Dormitio Virginis (Dormizione di Maria)
- Funerali di Maria
- Assunzione
- Incoronazione.
Fonte: Wikipedia